Il concetto di un elevatore spaziale per portare in orbita astronauti e materiali è semplice. Immaginate un cavo ancorato alla Terra che si estende nello spazio e sui cui viaggiano degli ascensori.
Il cavo rimane teso, se sufficientemente lungo (100 mila km, o anche meno con un contrappeso), grazie alle forze centrifughe imposte dalla rotazione terrestre che tendono a prevalere sull'attrazione gravitazionale, una volta superata l'orbita geostazionaria. L'idea fantascientifica ora si ripresenta in una versione che sfrutta i nanotubi di carbonia, e l'intuizione è tutta "Made in Italy". Il politecnico di Torino infatti studia l'idea, ma quanto è fattibile davvero? Il problema principale del cavo, però, è che deve essere al contempo super-resistente e molto leggero. Da subito ci siamo appassionati al problema, perché la sua soluzione porterebbe a molte altre applicazioni, per esempio nell'ingegneria civile (per la realizzazione di ponti sospesi ad elevatissima luce, come quello di Messina). Nel caso dell'elevatore spaziale il ruolo del materiale è super-critico. Un cavo di acciaio, per esempio, dovrebbe sopportare una tensione massima - che si manifesterebbe in corrispondenza dell'orbita geostazionaria - circa 400 volte maggiore della sua resistenza, fatto evidentemente impossibile. Ma con il carbonio le cose stanno diversamente e sarebbe sufficiente un cavo di nanotubi con una resistenza anche minore della metà di quella ideale del nanotubo singolo.
Il problema, tuttavia, non si risolve con l'impiego dei nanotubi stessi. Le strutture, infatti, tendono a diventare più fragili con l'aumentare della dimensione strutturale, aumentando con questa anche la probabilità di presentare difetti di dimensione maggiore. E' uno dei motivi per cui le ciliegie nascono sugli alberi, mentre le zucche per terra. E a proposito di alberi, il tronco, a sezione crescente verso il basso, in cui il peso da sopportare diventa via via maggiore, suggerisce una soluzione simile proprio per il cavo dell'elevatore: un progetto «ad uniforme resistenza». Significa un cavo non a sezione costante, con una tensione variabile, ma uno a sezione variabile, tale che la tensione all'interno rimanga costante e si avvicini alla resistenza del materiale stesso, così da sfruttarlo al meglio. La geometria che risulta è una specie di «botte», con la sezione massima in corrispondenza dell'orbita geostazionaria.
Giocando sul rapporto tra la sezione massima e minima (che c’è in prossimità della superficie terrestre), è in teoria possibile progettare il cavo con qualsiasi materiale. In pratica, però, non è così: se si considera l'acciaio, questo rapporto dovrebbe essere enorme, nell'ordine di un milione di miliardi di miliardi di miliardi (un 1 seguito da 33 zeri): significa che, se il diametro fosse anche solo di un milionesimo di metro alla partenza, sulla Terra, non sarebbe sufficiente l'Universo conosciuto per contenere il cavo stesso. Tutto cambia, invece, per un cavo con la resistenza ideale di un nanotubo al carbonio: il rapporto, in questo caso, diventa pari solo a 2.
Tuttavia - come accennato - non è lecito attendersi che il megacavo non abbia problemi. La chiave di volta per progettarlo è quindi quella di valutare il difetto più critico che ci si può aspettare al suo interno e realizzarne uno «flaw-tolerant» (tollerante alla presenza del difetto): deve operare a una tensione di poco minore a quella necessaria per fare propagare il difetto stesso. E' una soluzione ispirata a quella con cui la Natura progetta i materiali biologici, come le ossa.
La rottura del cavo può essere innescata dalla frattura di un singolo nanotubo o in seguito allo scorrimento relativo tra due di essi. Per affrontare questi problemi, nel primo caso, occorre minimizzare i difetti strutturali, mentre nel secondo caso si deve massimizzare la superficie di interfaccia tra i nanotubi. E' da notare che una semplice «vacanza atomica» riduce la resistenza del singolo nanotubo di circa il 20%, un calcolo che - giustamente - minava la realizzabilità di un primo progetto che trascurava proprio il ruolo dei difetti. I nostri calcoli più recenti, invece, si concentrano sullo scorrimento tra i nanotubi (pubblicati sul «Journal of the Mechanics and Physics of Solids») e suggeriscono un'altra ipotesi: progettare cavi con nanotubi sufficientemente «grandi» da «auto-collassare» per effetto del confinamento, imposto dalle forze di van der Waals, da parte degli altri nanotubi. Le forze di van der Waals agiscono sul solido come la tensione superficiale in un liquido, creando così una pressione sul singolo nanotubo, che, quindi, può collassare a seguito di un'instabilità elastica, un po' come farebbe il guscio di un sommergibile a profondità troppo elevata per effetto dello schiacciamento imposto dalla pressione dell'acqua. Tuttavia lo schiacciamento - in questo caso - è benefico, perché genera una maggiore superficie di interfaccia tra i nanotubi, che tendono ad assomigliare a fogli di grafene in mutuo contatto, con un incremento di resistenza di circa il 30%: la conseguenza è la possibilità di progettare cavi di nanotubi collassati super-resistenti (30 volte l'acciaio) e leggeri (un terzo rispetto all'acciaio).
La soluzione appare al momento la più credibile: ecco perché è stato raggiunto il consenso sulla necessità di impiegare queste nostre strategie «flaw-tolerant». Il progetto di materiale e struttura del cavo dell'elevatore spaziale ha fatto un passo in avanti, grazie alla Scienza delle Costruzioni.