Penso che le persone rimangano affascinate dal contrasto che passa tra i miei poteri fisici così limitati e la vastità della natura dell’universo con cui mi confronto.
Abituato a spiegare l’universo agli altri, il professor Stephen Hawking, matematico, astrofisico, genio del cosmo condannato all’immobilità da un’atrofia muscolare progressiva, ha deciso di raccontare il suo.
Che c’è nella testa di un uomo con un intelletto così sofisticato e un corpo tanto imperfetto da trasformarsi in una prigione? «Non lo so. So però che l’idea della morte incombente ha cambiato la mia vita...È bello quando capisci che vale la pena stare al mondo». I medici lo avevano convinto che il destino non gli avrebbe concesso il tempo per preoccuparsi delle sue emozioni e in effetti, a volere essere pignoli, prima che gli diagnosticassero la malattia non gliene importava neppure tanto. «Ero un ragazzino intelligente e molto pigro. Studiare non mi esaltava. Ho imparato a leggere a otto anni. Mi sorella Philippa, che è sempre stata più brillante di me, a quattro era già capace. Quando ho scoperto di essere malato mi sono reso conto che avevo un sacco di cose da fare. E che improvvisamente ne avevo voglia. È stato in quel periodo che ho dato il meglio di me».
Non che prima fosse un tipo ordinario. A «quel periodo» - che coincide con la laurea - Hawking ci arriva dopo avere fatto delle buone scuole superiori, parlando molto con i compagni di Dio e dell’infinito - «C’era davvero bisogno di Lui per creare l’universo?» - e aprendo i libri con una certa cautela. A 13 anni sente i primi formicolii alle mani. Gli spiegano che è l’effetto della crescita. Niente di preoccupante. Ci crede. «Scrivevo malissimo, ero la disperazione della mia professoressa di inglese. Però i miei compagni mi chiamavano Einstein. Un motivo ci sarà stato». C’era. «Studiavo un’ora al giorno. Ero convinto che essendo una persona brillante non fossi tenuto a impegnarmi sul serio. Mi annoiavo parecchio e credevo che non ci fosse nulla che valesse la pena di uno sforzo reale».
Esperienze di volo a gravità zero, nella prospettiva di un viaggio nello spazio offertogli dalla Virgin Galactic di Richard Branson.
Oxford gli apre le porte. Lentamente il dolore si fa insopportabile. Lo ricoverano. La prima diagnosi, sclerosi laterale amiotrofica, è sbagliata. Gli lascia una speranza di vita di neppure tre anni. Oggi ringrazia per quell’errore. «Ho dato il meglio di me». Era tanta roba. In fondo non fa altro che approfondire i dialoghi che aveva iniziato da ragazzo. Studia, capisce, scopre. Scrive «Dal Big Bang ai buchi neri», rivoluziona il mondo dell’astrofisica, ottiene la cattedra lucasiana di matematica all’Università di Cambridge, la stessa che era stata di Isaac Newton. Si sposa, ha tre figli, la malattia degenera, la sua testa no. Nel 1985 viene sottoposto a una tracheotomia per colpa di una polmonite. Non parla più. Eppure ha 69 anni, è ancora vivo e il suo cervello strega gli scienziati del pianeta. È più forte di tutto e tutti. Grazie Stephen!